Da quando mi misuro solo con me stesso, sono finalmente felice
Da decenni, prima i mass-media e oggi i social, ci sembrano comunicare costantemente la “grande bugia”: più hai denaro, più sei felice.
Vado a memoria: fino agli anni 2000, la pubblicità in TV era la portatrice principale del “sacro” messaggio. Oggi la TV è stata rimpiazzata dai social media. Cambia il canale, ma la comunicazione che passa è sempre la stessa: più hai denaro per possedere cose, più sei felice.
Dare una misura oggettiva alla felicità porta, ineluttabilmente, a misurarsi con gli altri in base alle cose che si possiedono, e ai lussi che ci si concede.
Ti puoi permettere una vacanza in più di me? Allora sei più felice di me.
Hai una macchina costosa, mentre io possiedo uno scassone vecchio e malandato? Allora sei più felice di me.
Hai casa di proprietà mentre io sono ancora in affitto? Allora sei più felice di me.
Si innesca, di conseguenza, una globale quanto malsana competizione di massa, dove ognuno prova a possedere più degli altri, per cercare una felicità che poi – scopriremo a nostre spese – non arriverà.
Onestamente, fino a qualche anno fa, ero tra i “follower” della grande bugia. Lavoravo 8 ore. Poi 9. Poi 10. Poi anche i fine settimana. Ero ossessionato dalla carriera e dai soldi che essa porta con sé.
E poi, ero maledettamente impaziente. Volevo tutto e subito, perché sacrificavo tutto e troppo di me. Troppo tempo, troppe energie, tutte orientate all’ottenere quella promozione, a fare quel gradino in più.
Il risultato? Stavo diventando infelice. Quasi depresso.
“Cosa mi sta succedendo?”, mi domandavo. Tutto questo, del resto, doveva rendermi felice: la promozione ottenuta, qualche cena in più al ristorante, qualche vacanza in più… E invece nulla. Il vuoto dentro.
Insomma, la “grande bugia” mi aveva fottuto talmente tanto il cervello, che – almeno all’inizio – non solo ero infelice, ma non capivo neanche perché lo ero e dove sbagliavo. E così, la ruota continuava a girare sempre per lo stesso verso, in una sorta di autolesionismo inconsapevole.
Ad un certo punto, arriva la svolta: l’occasione della vita, un nuovo lavoro, una posizione da manager dopo anni di gavetta, infinite responsabilità in più, ma anche uno stipendio raddoppiato.
Un’occasione meravigliosa, quell’occasione che uno come me bramava da tanto, che può darti davvero una piccola svolta economica.
Indovinate per quanto tempo sono stato felice di questa nuova occasione lavorativa? Zero secondi.
Da lì, ho capito che stavo sbagliando tutto. Che stavo quantificando la felicità usando l’unità di misura sbagliata. Che non stavo diventando una persona migliore, pur guadagnando di più… anzi. Stavo solo diventando una persona infelice, ma con un buon conto in banca.
Inoltre stavo – paradossalmente – guadagnando di meno in proporzione agli aumenti che ricevevo: perché per compensare frustrazioni e sacrifici, acquistavo cose con la disperata speranza di riempire vuoti.
Sono andato, quindi, in blackout. Corto-circuito totale.
Mesi di ansia e depressione perenne e costante, che toccava i suoi picchi ogni lunedì della settimana.
Poi, lentamente e con enorme sforzo, ho cominciato a cambiare l’unità di misura.
Ho buttato, venduto e regalato tutte le cose di cui non avevo bisogno. Ho ripensato totalmente il mio tempo libero, dedicandolo a meno attività con zero significato (ore e ore di Netflix e Playstation) e sposando attività che mi davano di più (leggere, educazione personale, dedicare più tempo alle persone che amo, suonare il pianoforte, scrivere).
Ho rivisto i miei obiettivi di carriera adagiandoli a dei ritmi più umani, rinunciando al “tutto e subito” e sposando un più umano /“migliorati giorno dopo giorno, con calma, e in tempi sostenibili”/.
Insomma, come scrivevo, sono riuscito a cambiare l’unità di misura: ho smesso di compararmi con gli altri, e ho iniziato a guardare solo me stesso, con l’obiettivo di migliorarmi un pochino ogni giorno.
Da quel santo giorno, mi sono sentito sempre meglio e oggi mi ritengo un uomo felice. Perché a prescindere da quello che la vita mi presenta di bello o brutto (sul quale non ho controllo), cerco di fare e dare il mio meglio in tutto. Specialmente alle persone che amo, e agli obiettivi che per me contano.
Non sempre ci riesco, eh. Tuttavia – quando non riesco a dare il massimo – ho imparato a perdonarmi dandomi una pacca sulla spalla e rassicurandomi che domani, probabilmente, farò meglio di quanto non sia riuscito a fare oggi.
È stato un cambio di prospettiva totale, nonostante la sua semplicità concettuale. Faticoso, lento, frutto di un lavoro costante su se stessi.
Però, ragazzi miei, ne è valsa la pena e vi incoraggio a fare lo stesso.